DURBAN (SUD AFRICA) - C´era un treno, tra la fine dell´Ottocento e i primi del Novecento, che correva dalla Rhodesia (oggi Zimbabwe) al Sudafrica. Su quel treno migliaia di minatori neri, costretti a una vita di stenti e di fatiche nelle miniere d´oro del Transvaal, cantavano un´antica canzone: Shosholoza, che in lingua zulu significa "spingi avanti", "fai spazio" e indica la corsa senza sosta verso la meta. A distanza di oltre un secolo, quel nome legato alle radici e vagheggiante un sogno di libertà, compare sulla fiancata della prima barca nera pronta a veleggiare nella America´s Cup a Valencia. Una barca che è accompagnata dalla simpatia di un intero continente perché sfoggia sul suo spinnaker un grande nastro rosso, simbolo della lotta contro l´Aids. Dietro un impegno sportivo di siffatta portata storica c´è un campano, esponente della comunità italiana in Sudafrica: il comandante Salvatore Sarno, 49 anni, originario di Nocera Inferiore. È lui l´animatore di Shosholoza, mentre la sua compagnia, la Msc, ne è lo sponsor principale.
Venti anni fa, in uno dei suoi tanti viaggi, il comandante approdò in questa città portuale e non l´ha più lasciata. Il contributo che ha dato alla rinascita del Sudafrica, dopo gli anni terribili dell´apartheid, è qualcosa a cui tutto il mondo dello sport, e non solo, rende omaggio. Sulla sua barca c´è un pezzo di storia, il grido di riconciliazione di un paese, il riscatto di un popolo. E c´è il volto del nuovo Sudafrica, figlio delle lotte contro il razzismo. Con una passione tutta partenopea, Salvatore ha organizzato per la prima volta un team comprendente ragazzi neri e bianchi. Comandante, ci racconti la sua storia...
«Sono nato a Nocera Inferiore e là ho ancora parenti e amici. Ci torno un paio di volte l´anno. Specialmente a Natale, quand´è un dovere assistere alla messa di mezzanotte nella chiesetta del rione Casolla, la stessa dove sono stato battezzato, ho fatto il chierichetto, la prima comunione, il matrimonio, il battesimo dei miei figli, e dove ho dato l´ultimo saluto ai miei cari che non ci sono più. Non mi sono mai allontanato dalle origini, le radici sono lì: Casolla, il golfo di Salerno e il mare della costiera amalfitana. Da piccolo leggevo l´Intrepido. Mi piaceva moltissimo Capitan Eagle che col suo veliero, l´Aquila dei Sette Mari, girava il mondo avventurosamente. Penso che sia stato lui a ispirarmi e a farmi sognare di diventare capitano. In estate salivo in vetta alla collina di Sant´Andrea dove mi sedevo per ore tra i ruderi del castello e cercavo di vedere il mare e sognavo di conquistarlo con il mio veliero. A Casolla, dove tutti avevano un nome e un soprannome, già dalle elementari io ero Salvatore ‘o Capitano. Ero il capo quando giocavamo agli indiani, il capitano della squadretta di pallone e della squadra di ciclismo. Non c´era il televisore o almeno non tutti l´avevano, ma noi fratelli Sarno andavamo ogni sera, a turno, ad aiutare papà che come secondo lavoro (era elettricista nell´ospedale civile) faceva l´operatore al cinema Diana di Nocera. Io vivevo nel terrore che la pellicola potesse prendere fuoco, proprio come nel film "Nuovo Cinema Paradiso". Dopo le scuole medie ho insistito per andare all´Istituto Nautico di Napoli, e quindi pendolare ogni mattino e ogni sera, stesso treno fino al diploma, con gli intermezzi estivi serali al cinema Diana».
«Dopo il diploma non volevo più andare a navigare, volevo studiare architettura navale e disegnare barche. Un lusso che la mia famiglia non poteva permettersi. E allora, Marina militare: nocchiere, sottocapo, sergente e secondo capo. Mi assegnarono alla divisione navi scuola, m´imbarcai sulla "San Giorgio" e un po´ sulla "Vespucci" e sul "Corsaro II". Imparai a fare il marinaio, quello vero, dal lavoro più umile a quello di dirigere la manovra a poppa. Diventai forte fisicamente. E m´innamorai pazzamente di Sandra, ora mia moglie. Non ho mai rimpianto i due anni trascorsi in Marina militare: mi hanno forgiato onestamente e mi commuovo ancora quando ne vedo la bandiera. Al congedo, imbarco immediato su una petroliera di Achille Lauro per completare il periodo obbligatorio da allievo e dare gli esami da ufficiale. Poi arrivò l´imbarco con Aponte, che aveva appena comprato la sua prima piccola nave. Progetti, sogni, matrimonio e primo comando affidatomi proprio da Aponte: a ventisei anni. Da allora non ci siamo più fermati. Dopo tre anni al comando di diverse navi, diventai il suo braccio destro prima a Bruxelles nel 1976, poi a Ginevra fino al 1988, quando mi sono trasferito in Sudafrica per sviluppare il mercato dei traffici portacontainer».
«A Nocera ho ancora due fratelli, nipoti e qualche zia. Con Sandra, nocerina come me, sono sposato da 35 anni. Abitavamo nella stessa strada, a 30 metri di distanza. Io avevo 14 anni e lei 12 quando diventò la mia ragazza. Era la più bella del rione e sembra che fosse attratta dalla mia personalità di capo, perché in verità ero abbastanza bruttino e scontroso, a confronto con i belli del rione. Abbiamo due figli, Antonio e Rosario, e tre nipotini. I figli li abbiamo portato in giro per il mondo: asilo a Bruxelles, elementari e medie a Ginevra, superiori in Sudafrica, università in Italia: medicina per Antonio alla Cattolica di Milano e giurisprudenza per Rosario alla Luiss di Roma. Attualmente Antonio è chirurgo a Prato e vive a Firenze, ha 33 anni, è il consulente medico di Shosholoza, nonché consigliere tecnico del team. È lui che mi dà tutte le informazioni sugli altri team e le notizie dai giornali. Rosario, 30 anni, lavora con me in Compagnia ed è il legale di Shosholoza, naturalmente anche lui senza paga».
«Ho conosciuto Gianluigi Aponte subito dopo aver fatto gli esami da ufficiale. Mi chiamò lui al telefono per offrirmi la posizione di secondo ufficiale sulla sua prima nave. Mi piacque la sicurezza con la quale parlava. Lo incontrai tre giorni dopo a bordo della "Rafaela", e capii di non essermi sbagliato. Allora Gianluigi era poco più che trentenne, ma aveva già quel carisma che lo contraddistingue: era già un condottiero. E quando anche Sandra conobbe lui e sua moglie Rafaela, decidemmo che per me non ci sarebbe stata più nessun´altra compagnia di navigazione. I tempi erano difficili, abbiamo avuto tantissimi episodi epici, davvero epici da "Aquila dei Sette Mari", ma abbiamo fatto tutto con onestà, senza compromessi, esattamente com´è sua politica. E poi l´amore morboso per il nostro lavoro, le dodici ore al giorno in ufficio a occuparci di tutto, e specialmente la lungimiranza di Aponte e le sue scelte strategiche, al momento giusto, hanno creato la leggenda della Msc, compagnia anacronistica (a detta dei concorrenti) ma che cresce ed è al secondo posto nel mondo».
«Del Sudafrica mi piacciono gli spazi sconfinati, il cielo blu e soprattutto la gente. È gente brava con problemi enormi: mi sembrano tanti napoletani. E poi i bambini. Vedi i bambini con il loro sguardo vivo che ti fissano fieri senza mai abbassare gli occhi. Questo è il mio "mal d´Africa". Io devo molto a questa terra e alla sua gente. La partecipazione alla Coppa America è l´occasione per ricambiare, per far capire al mondo che l´Africa non è soltanto la terra delle zebre e degli elefanti, ma anche un paese ricco di tradizioni e di cultura, capace di dare tanto e di fare bene».
«I cinque anni da studente mi hanno fatto conoscere la vera Napoli, quella che non si vede nel telegiornale, la migliore. Ho dei cugini napoletani, una famiglia composta da undici figli col papà ferroviere. Tutti studiavano ed erano artisti: chi scriveva poesie, chi dipingeva, chi suonava la chitarra, chi il mandolino e tutti avevano un accento melodioso e bellissimo, e quando parlavano sembrava recitassero, non come il mio accento nocerino. Alla Msc, con Aponte, abbiamo dimostrato che anche noi del Sud riusciamo a fare cose eccezionali se ci viene data la possibilità. Perciò sono sempre fiero di dire: sono napoletano. Ma è una pena vedere il telegiornale in Sudafrica: che brutte notizie! Alla fine mi dico che per me Napoli non è quella dove impera la delinquenza. Napoli sono i miei cugini poeti e artisti, è il venditore ambulante sul treno o al casello dell´autostrada che ti chiede con gentilezza di comprargli qualcosa perché altrimenti cosa deve fare per sbarcare il lunario, andare a rubare? Allora tu gli compri tutto e senti di volergli bene».
«Ho conosciuto Nelson Mandela e il premio Nobel Desmond Tutu, dopo che erano stati i miei eroi. Sono loro che hanno reso la transizione fattibile e senza spargimento di sangue. Sono tutti e due tifosi di Shosholoza. Mandela mi ha detto: Comandante, hai realizzato il sogno che ognuno di noi vecchi combattenti desiderava vedere, un team formato da sudafricani di diversa origine, razza, religione e cultura impegnati in un´impresa sportiva a livello mondiale. E dovevamo aspettare un napoletano per vedere questo sogno avverarsi».
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