03/03/09

Pensieri al vento - Perdere è una cosa, perdere con onore ne è un’altra.

Da poco meno di quindici giorni si è chiusa l’avventura chiamata Louis Vuitton Pacific Series, l’evento con le barche d’America’s Cup Class (ACC) che in questi giorni ha tanto fatto parlare di sé con i suoi colpi di scena, i suoi partecipanti, la sua fantastica nonché spettacolare location e le sue rivelazioni.

Da poco più di quindi giorni si è chiusa però anche un’altra avventura, quella targata Shosholoza, di Paolo Cian, Tommaso Chieffi e di tutti quelli che con loro hanno preso parte a questa importante competizione.

Un’avventura caratterizzata, come detto, da tanti di colpi di scena; ebbene questi ci sono stati e come, positivi e negativi, come normale che sia. Shosholoza, in questo evento, ce ne ha saputi regalare tanti, come tante sono anche le emozioni che ci ha fatto provare e vivere: ci hanno fatto tremare il cuore gli scorsi di potenza, determinazione e bravura che certo non si sono fatti attendere e che ci hanno permesso in modo più che dignitoso di tenere testa ai più forti. Ha saputo però anche regalarci, se ciò mi è permesso, la consapevolezza, più volte espressa in alcune interviste anche da Paolo Cian che, essendosi alzato di moltissimo il livello rispetto alla 32esima edizione dell’America’s Cup, non è bastato, per fare bene e meglio dei precedenti eventi, migliorare e potenziare alcune posizioni dove si temeva vi fossero delle debolezze. Difatti, come si è avuto modo di vedere sul campo di regata, il miglioramento apportato, dato il fatto che anche gli altri team hanno operato con la stessa logica, è stato quasi del tutto azzerato.

Ora come ora, dopo questi Louis Vuitton Pacific Series, facciamo il punto della situazione e redigiamo una specie di bilancio: il bilancio, se guardiamo il tabellone dei punti e il nostro ‘miglioramento azzerato’, è negativo. Predisponiamo però un’analisi approfondita di ciò che è stato l’evento e di ciò che di negativo c’è stato; a questo punto non mi resta che esprimermi con parole più adeguate: il bilancio finale è sì negativo ma non del tutto. Da esso occorre necessariamente estrapolarne il ‘buono’, ciò che di positivo può esserci anche in una sconfitta su un campo di regata, e tramutarlo in esperienza ‘positiva’ per i prossimi eventi che ci vedranno in acqua.

Perché dico questo? Perchè mi preme specificare che Shosholoza non è una persona, non è un automatismo. Shosholoza è un gruppo che ha bisogno di crescere, e che per crescere ha bisogno di tempo, di passione, di speranza, di appoggio. Shosholoza è un gruppo ho detto poc’anzi ma, se volessi meglio specificare e utilizzare così un sostantivo più appropriato, dovrei parlare di famiglia: Shosholoza è una grande famiglia e, come ogni grande famiglia, per crescere ed avere la giusta coesione, ha bisogno di tempo.

Per questo, per il futuro, soltanto l’idea di arrendersi, abbandonare e non costruire, non rischiare e non credere suonerebbe come una sconfitta ancora più amara di quella raccoglibile su un campo di regata: è in un’ottica di lungo periodo che vengono distinti i vinti dai vincitori, i campioni da quelli semplicemente bravi.

Presa di coscienza, così, per il futuro, di un dato di fatto, di una nuda e cruda realtà: basta poco per essere un gradino più alto e scavalcare chi ha superato quel gradino prima di noi.

“Impara l’arte e mettila da parte” si suol dire; l’arte, a mio parere, è appresa, basta semplicemente ricordare che il più avvincente, emozionante ed adrenalinico match di questi Louis Vuitton Pacific Series è stato proprio quello che vedeva in acqua Shosholoza contro Luna Rossa (perso dai sudafricani solo a causa di una penalità); e cosa dire della sconfitta più pesante in questa competizione: il defender Alinghi l’ha ricevuta proprio contro Shosholoza. Basta pensare a queste due isolate regate per averne dimostrazione. Un caso?

Quella vittoria contro il defender, trascorso indelebile da incorniciare al muro come un trofeo, aveva alzato il morale di tutti, aveva rappresentato il riscatto dopo giorni di errori, cattive interpretazioni, circostanze contrarie e distrazioni che, anche se con dignità come detto prima, ci avevano portato evidentemente (e con non poco stupore) ad agguantare un amaro posto in classifica. Quella vittoria aveva anche rappresentato un mezzo attraverso il quale i nostri ragazzi sudafricani e non, potessero rinforzare la loro autostima, un mezzo attraverso il quale avere la possibilità di dimostrare in modo chiaro e limpido il potenziale che Shosholoza aveva ed ha a disposizione.

Ora non ci resta che chiudere questo capitolo e questo evento, mettercelo alle spalle, e proiettare lo sguardo verso quelli futuri, con la consapevolezza che bisogna lavorare il doppio e il triplo di quello che già si è fatto, ma che non occorre ‘strappare le radici’ e riseminare da capo perché i frutti possano essere in futuro più dolci.

Mi domando, cosa è mancato? Un plus, un piccolo plus e un po’ di fortuna che sempre serve.

A questo punto se è consuetudine dire che l’importante non è vincere ma partecipare, ciò non è vero quando l’obiettivo principale è portare a casa risultati. Ma perdere è una cosa, perdere con onore ne è un’altra, e per questo ritengo doveroso che si riveda e si risolvano i problemi con la stessa pazienza e passione che da sempre ha accompagnato il Comandante Sarno in questa lunga avventura chiamata Shosholoza, chiamata riscatto di un popolo, quello sudafricano. Occorre per il futuro inventariare le nuove idee, raddrizzare le vecchie, sostituire quelle malfunzionanti; occorre rivedere pensieri e progetti, abbattere le incomprensioni di bordo e sostituirle con il sincronismo perfetto.

Basta poco per aggiungere quel plus, lo so. Ma ci credo, e con me scommetto che ci credono tutti quelli che in Shosholoza non vedono soltanto una barca, un team, ma un modo di vivere, di fare, una famiglia.

Alla prossima avventura Shosholoza, alla prossima…

Clicca sul bigliettino per ingrandire

0 commenti:

Posta un commento